Quello che pensiamo noi.

Caro Signor Ruffini,

Negli ultimi mesi abbiamo partecipato ad un progetto intitolato “Generazioni Connesse” per imparare ad usare il web con la testa e per studiare in sicurezza anche sfruttando la rete. Abbiamo riflettuto sui rischi che corriamo quando siamo collegati in rete. Abbiamo analizzato il nostro comportamento quando siamo connessi. Abbiamo parlato di come tendiamo a esprimerci dentro e fuori dal web.

Ciascuno di noi ha poi scritto nel suo taccuino dello scrittore il Manifesto della comunicazione non ostile. La Prof non ha voluto darci la fotocopia. Ci ha obbligati a scriverlo forse perché dice sempre che scrivere è pensare su carta e così avremmo pensato di più al senso di quello che stavamo scrivendo.

Ieri eravamo tanto contenti di poter vedere la diretta streaming e siamo rimasti tanto sorpresi del fatto che uno dei rischi che corriamo quando siamo connessi lo stavamo proprio incontrando mentre eravamo collegati a “Condividi”: il rischio di essere bombardati da un linguaggio pieno di parolacce e volgarità che ai nostri occhi può sembrare divertente e, per questo, normale e da imitare.

Lei ha detto che le parolacce le stava dicendo per creare empatia e che è più ostile un atto di violenza di una parola scurrile. Nel manifesto invece c’era scritto che le parole fanno più male delle botte, che le loro ferite possono essere più dolorose. Chi ha ragione? Lei o il manifesto? Le parole che lei ha usato ieri, all’inizio ci hanno fatto ridere ma, man mano che aumentavano, e man mano che le usavano anche i ragazzi in sala con lei, ci hanno imbarazzati e ci hanno fatto male.

Lo sa perché? Perché il fatto che lei sia un personaggio pubblico è come se ci spingesse a riutilizzarle. Tutti i giorni la Prof di Italiano ci ricorda che le parole vanno scelte con cura. Che vanno pensate. Il manifesto dice di prenderci del tempo per pronunciare quelle giuste. Noi, a scuola, stiamo imparando a sceglierle, le parole. Perché ogni parola che c’è sul vocabolario di italiano può essere una carezza, un’arma, un abbraccio, una coltellata, un bacio o un pugno in piena faccia.

Lei ieri ci ha presi a pugni quando invece avrebbe dovuto aiutarci a capire come le parole giuste possono creare accoglienza.

I nostri professori, a scuola, non usano parolacce. Alcuni ci stanno più simpatici e altri meno ma questo non dipende dal linguaggio che usano. Lo sa? I professori che amiamo di più, quelli che ascoltiamo più volentieri sono quelli che ci dimostrano attenzione, che sanno comunicare con noi e che sanno coinvolgerci rispettando noi, le nostre idee e le nostre menti. Sono quelli che non ci insegnano solo il contenuto della loro materia ma che ci fanno capire che ci tengono a noi anche facendo attenzione al tono di voce che usano e al modo in cui ci parlano. Noi proviamo rispetto per loro anche perché facendo così è come se ci dicessero che pensano che noi abbiamo delle potenzialità, che siamo intelligenti e che possiamo diventare migliori se impariamo a sviluppare uno spirito critico.

Ieri lei, dicendo che usava quel linguaggio perché è quello che i ragazzi di oggi usano, ci ha trattati da maleducati, da menefreghisti, da persone che non si interessano ai discorsi se in mezzo non c’è una parolaccia.

Ci dispiace che lei la pensi così. E un po’ ci dispiace che la pensino così anche le persone che le hanno permesso di comportarsi in quel modo.

A noi comunque la sua “non lezione” di ieri è servita a capire ancora di più da cosa dobbiamo difenderci.

Speriamo che la nostra serva anche a lei a capire come sono fatti davvero i ragazzi di oggi.

Cordiali saluti, 

Dei ragazzi di prima media e la loro prof di italiano.
 

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Un pensiero su “Quello che pensiamo noi.

  1. L’ha ribloggato su sabinaminutoe ha commentato:
    Ri pubblico questo fantastico intervento dei ragazzi della scuola media dove insegna Silvia una mia amica e stimatissima collega. Altro che ministro Fedeli e comico(?) Ruffini. Io da ridere non ci ho trovato niente. Ne sanno di più questi 44 alunni di tanti che si arrogano il diritto di parlare a nome loro.

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